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Monica Pais, la veterinaria più famosa d’Italia, si racconta|L’intervista

Nome? Monica Pais. Professione? Veterinaria.

La veterinaria più amata d’Italia, per essere precisi. Sì, la Pais, insieme a suo marito Paolo, gestisce la famosissima Clinica veterinaria Duemari, ad Oristano.

Diventata famosa con il cane Palla, la Clinica vanta ora 400mila “mi piace” su Facebook. Insomma, decine di migliaia di persone circondano con il proprio amore, rilasciando – perlomeno mi piace pensarlo – un’aura positiva, la vita della Duemari che dà una seconda possibilità agli animali che la prima l’hanno vista, ahimè, sfumare per incuria o crudeltà umana o solo per sfortuna.

“Animali come noi”, edito da Longanesi a fine marzo, racconta appunto del percorso di Monica Pais, della sua infanzia trascorsa a salvare animaletti, degli studi all’Università e della professione di veterinaria ormai concretizzata. È un balsamo, questo libro, e dà coraggio a tutti coloro i quali sognano un mondo migliore per i propri amici animali.

Buongiorno Monica! Da dove nasce la passione per gli animali? È insita dentro di noi oppure è condizionata dall’esterno? C’è o non c’è, insomma, oppure può crescere a seconda del contesto?

«Ci sono persone che nascono istintive e che, un po’ per carattere e un po’ per eredità, si sentono molto vicine agli animali. Si appassionano molto alle cose, hanno pulsioni forti. Io penso che però, a prescindere da questa caratteristica innata, si possa “imparare” dal contesto a rispettare e a voler bene agli animali; questa parte è ugualmente importante. Non ci sarà l’estrema passione, è vero, ma noi puntiamo a dare un po’ di conoscenza a tutti: è quella che apre tante porte e tanti cuori che pensavano di essere diversi o lontani dalla condizione animale».

Nel suo libro, spiega che era molto piccola quando annunciò ai suoi genitori che sarebbe diventata un “dottore degli animali”. Ha mai dubitato di questo, prima dell’iscrizione all’Università, oppure la carriera come veterinaria era l’unica possibile?

«Io non la vedevo proprio come una carriera… I bambini cosa vogliono fare? Vogliono andare sulla Luna, fare tante cose particolari. Si ha l’obiettivo finale, insomma. Nella mia testa, la missione era curare gli animali, recuperare il passerotto caduto dal nido e riportarlo sull’albero, salvare il gattino. Era un’idea bucolica, la mia, ma l’unica possibile. Non era certo una cosa pensata, era l’evidenza dei fatti. Un po’ come quando si nasce con i capelli rossi… sei nato così. Io non potevo pensarmi diversamente».

Come spiega in “Animali come noi”, quando la passione divenne un lavoro, alla responsabilità nei confronti dei pazienti si aggiunse quella nei confronti dei proprietari. Questo talvolta è un limite?

«Be’, talvolta sì, i proprietari sono un limite. Ti raccontano la mezza favola, occultano qualcosa perché si sentono responsabili… Certe volte invece ti scodellano una diagnosi pronta. Bisogna capire che noi abbiamo pazienti che non parlano, i loro padroni sono un ponte per noi affinché sia più semplice capire cosa non va. Una cosa molto importante per noi veterinari è il cercare di creare un contatto diretto con i nostri pazienti… La bravura di un professionista del nostro settore è proprio questo, fatte salve le conoscenze tecniche che devono essere presenti di base: va instaurato sia con l’animale che con il suo padrone un rapporto di fiducia, di comprensione. Le persone devono capire che noi sappiamo di avere tra le mani il loro amico, un membro della loro famiglia, il loro – in certi casi – figlio».

Triste primato, per la Sardegna: maglia nera per la crudeltà nei confronti degli animali. Fuego è solo uno degli ultimi casi noti, ma più di 1200 sono stati seviziati dall’inizio dell’anno ad ora. Come la fa sentire? Le cose sono migliorate o peggiorate da quando ha iniziato questo mestiere lei?

«Questi dati sono stati elaborati senza tener conto del fatto che nell’Isola ci sono più animali che persone. La Sardegna, dobbiamo ricordarci, ha un’estrazione agropastorale; noi conviviamo da sempre con gli animali. I sardi hanno un rapporto con gli animali che è molto naturale, molto vero, molto giusto. Ribadiamo, non siamo i primi in classifica per maltrattamenti, ma per denuncia di maltrattamenti. È una cosa molto diversa e la trovo positiva. Io faccio la veterinaria da 26 anni, l’ambiente è cambiato anche nei contesti agropastorali: l’animale è visto come gregario, come socio. Certo, ha un proprio percorso… Nasce, va al pascolo, si riproduce, muore. In Sardegna, sento di doverlo dire, c’è l’allevamento più etico e rispettoso possibile: ricordiamo la pastorizia vagante delle greggi. L’Isola, con i suoi immensi pregi e i suoi difetti, non è una cornice del mio libro ma è proprio una protagonista. Il triste primato è per quelle regioni, e spero siano sempre di meno, dove non si vede il maltrattamento, dove le sevizie non sono considerate sbagliate, non fanno notizia, non sono considerate. E per questo non si arriva a stare nella classifica. Certo,» aggiunge «l’uomo è cambiato per quanto riguarda se stesso e l’ambiente circostante. Non è più una vergogna dire che il cane, il gatto sono membri della famiglia. Si dice tranquillamente che le anatre del cortile non si uccidono perché non si ha il coraggio. I sardi hanno un enorme privilegio: si sentono parte della natura, quindi gli animali sono parte del loro cammino. La Sardegna è il Paradiso terrestre. Tante cose potrebbero essere migliorate, come ovunque, ma l’Isola è un posto dove l’uomo ha la sua posizione all’interno di una naturalità, in un contesto geografico e ambientale meraviglioso. I sardi sono degli eletti, devono saperlo».

Ci sono stati momenti molto difficili dove ha pensato che fare questo lavoro fosse troppo duro?

«Fisicamente è una faticaccia bestiale» spiega. «Immagina l’ansia per la salute dei pazienti che ti vengono affidati e uniscila alla preoccupazione per la gestione di un’azienda. Si vive in uno stato di tensione continuo. Devi lavorare, portare avanti lo studio veterinario, interfacciarti con la società. Non è semplice. Non ho mai pensato di mollare, sebbene all’inizio della mia carriera universitaria abbia pensato di aver sbagliato visione del veterinario. È stato quando il lato tecnico della professione sembrava sovrastare quello empatico. Andando avanti con gli studi e progredendo nell’uso dei vari strumenti, però, ho capito che l’empatia da sola non sarebbe servita granché».

Quale è stato il caso più complesso? Insomma, qual è il rottamino a cui pensate con il sorriso sulle labbra perché sembrava appeso alla vita da un filo che era sul punto di spezzarsi?

«Freccia, è stato lui il nostro caso più complesso, quello in cui siamo stati più bravi tecnicamente. Aveva delle lesioni in organi che non perdonano, come ad esempio l’esofago. Abbiamo gestito l’emergenza con grande bravura, avevamo gli strumenti giusti. Sono comunque stati molti i casi complessi: essendo un Pronto Soccorso, ne capitano tante».

Può parlarci della ONLUS Effetto Palla?

«La pagina Facebook della Clinica veterinaria Duemari è nata proprio per trovare adozioni per gli animali che salviamo. Li aggiustiamo,» spiega «li ricondizioniamo e, quando sono come nuovi, cerchiamo loro una casa. Non siamo un canile né un gattile, non vogliamo in nessun caso rimandarli in queste strutture. Quindi, tramite la pagina, cerchiamo adozione per loro. Noi produciamo, in un certo senso, dei personaggi, cerchiamo di provocare empatia per il malcapitato di turno. Proprio per questo caricammo la foto di Palla con due righe che spiegavano quello che avevamo visto. La cagna era arrivata son un laccio intorno al collo messole quando era ancora una cucciola. Aveva la testa grande ed era l’immagine della sofferenza, della desolazione, dell’abbandono. Da 26mila “mi piace” siamo arrivati, in una sola notte, a 186mila. Quella foto ha fatto il giro del mondo: ha raccontato a tutti cosa si faceva nella nostra clinica. Fu un circolo virtuoso, proprio per questo decidemmo, per non disperdere tutta quell’attenzione, di costituire una ONLUS. Ogni persona lì può trovare il proprio spazio, può fare del bene».

Una domanda che ha a che fare con il suo ultimo libro. Immagino che la passione per la scrittura ci sia e sia ben forte. Quando e come è nata?

«La passione per la scrittura è nata quando ero bambina: in questo libro ci sono racconti scritti in varie fasi della mia vita. Mia madre, che stava lontana da casa per mesi, mi chiedeva di scrivere in un quaderno ciò che mi accadeva soffermandomi sulle emozioni, in modo che potessimo condividerle quando fosse tornata a casa. Ecco, mi sono abituata a scrivere per manifestare passione. Ancora adesso, mi viene meglio esprimermi per iscritto. Io scrivevo per lei, che era una persona molto profonda ed empatica».

Che consigli sente di dare a chi, come lei, ha la passione per gli animali e vuole percorrere un cammino simile al suo?

«Pochi consigli per chi vuole percorrere questa strada: bisogna sempre seguire le proprie passioni. Ci sono persone che amano gli animali ma che svolgono altre professioni. Io sono sempre stata una persona pratica, volevo usare le mani e sono diventata così un chirurgo. Non bisogna mai farsi abbattere, la passione è personale, deve essere solo tua e di nessun altro».

Federica Cabras

Ventiseienne, grande sognatrice. Legge per 12 ore al giorno e scrive per le restanti 12. Appassionata di cani, di crimine, di arte e di libri. Dipendente dalle paste alla crema. Professione, giornalista.