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Ritorno a Blue River di Grazia Caputo: il passato che ritorna | RECENSIONE

Tutto parte dalla leggenda di Blue River che narra che, “se ti fermi sulla riva del fiume, puoi vedere la tua vita scorrere attraverso l’acqua: i tuoi successi, i tuoi riscatti, i tuoi sogni realizzati. E tutto quello che vi siete lasciati alle spalle: le delusioni, i rimorsi, i giudizi, la tua passata identità”.

Pensiero comune vuole che, un attimo prima della morte, tutto ci scorra davanti agli occhi. Tutto quello che si è fatto, che si è vissuto, che si è provato. Il primo bacio, la prima cocente delusione, la prima volta sul sedile dell’autista, un gesto carino, un gesto simpatico, un gesto maligno. Si pensa anche che non si possa sfuggire a questo. Soprattutto, quando le cose brutte sono più di quelle belle. Soprattutto quando ci si è comportati male. Soprattutto quando manca il tempo per rimediare. Ah, si pensa anche che sia inevitabile, insomma, e che il perdono per le colpe avute non sempre arrivi. Da se stessi e dagli altri.

Qui invece, pur essendoci anche quest’ultima versione ma non vi dico dove – non spoilererò, giuro –, il significato finale – o perlomeno quello che ho compreso io – è che prima o poi, nonostante tutto, le persone troveranno il proprio riscatto. Le persone buone, intendo, quelle che hanno sofferto per mani o per lingua di altri. E guarderanno, dall’alto della loro serenità, chi ha dato vita al loro dolore. Senza odio, in effetti, e senza più rabbia. Avvolte solo da un mantello di equilibrio e serenità.

Ma entriamo nel vivo del romanzo “Ritorno a Blue River” (targato Officina Milena) che, pur essendo breve, è molto intenso.

Grace Jones torna a Blue River dopo essere stata via per alcuni anni. Da adolescente, era una ragazzina impaurita, bullizzata da alcuni coetanei, timida e a tratti impacciata. Adesso, è una donna che ha il mondo in mano. Scrittrice di successo, è realizzata, finalmente sembra in pace. Sembra.  Si cambia, eccome se si cambia, soprattutto se ci si allontana dai posti che sono stati le nostre gabbie.

Ma se non si mette un punto a ciò che è stato, risolvendo i punti in sospeso, non si può andare avanti. Si deve chiudere una porta per poterne aprire un’altra e lei, fuggendo da quello che era stato il suo scomodo nido d’infanzia, ha costruito una vita altrove che è certo più che soddisfacente ma non è del tutto serena. C’è un nodo irrisolto, in quello che è il suo percorso, e scappare non è mai la soluzione.

Il passato è un vecchio stronzo che, se non superato del tutto, ci sussurra i suoi segreti nelle orecchie la notte, quando le ombre si posano sugli oggetti e il sonno combatte per diventare parte di noi. Ci sussurra e non ci lascia in pace e talvolta torna, sotto forma di individui che non hanno perso la loro malignità – come in questo caso.

Chi è che tormenta Grace con telefonate e appostamenti fuori da casa? Chi la fa sentire in pericolo nel posto che dovrebbe essere il più sicuro? Chi brama il suo respiro affannato? Chi vuole vederla in difficoltà?

In questo testo, molti elementi. L’autrice, Grazia Caputo, li sviluppa tutti in modo impeccabile.

C’è il ritorno alle origini. Quando si rimette piede in un luogo che è stato il nostro tutto dopo anni che non si sentono quei profumi e che non si vedono quelle abitazioni, be’, sembra quasi di vivere un’esperienza surreale. Grace si sente legata e allo stesso tempo distante da Blue River. Partendo, ha messo un muro tra sé e quel luogo, tra sé e i suoi abitanti, tra sé e i ricordi. Quando torna, deve affrontare tutto, anche la migliore amica Nora.

C’è la giornata di Halloween, con tutta una consueta aura di mistero e paura ad avvolgerla. Ci sono, come la cultura americana insegna, feste nei cimiteri, gente mascherata, paura ed eccitazione allo stesso tempo. La fascinazione della morte presente nella cultura americana e legata alla notte del 31 ottobre è ben visibile. La Caputo l’ha saputa rendere in modo impeccabile.

Ma c’è più che altro, elemento portante del testo sebbene non visibile fin dall’inizio, il tema del bullismo. Il bullismo che si ciba di te. Che ti mangia e ti sputa. Che ti calpesta. Che ti fa capire che non vali e che ti picchia, ti maltratta, ti piega. Il bullismo che colpisce in un’età in cui si è vulnerabili, in cui la corazza non protegge poi molto, in cui si è più deboli.

Impossibile non leggerlo con un nodo alla gola. Impossibile non essere dalla parte di chi soffre, di chi ingoia e va avanti nonostante tutto, nonostante l’umiliazione, nonostante la fatica. Che poi, alla fine, l’importante è non perdere se stessi. Anche se è difficile.

“Il bullismo è una brutta storia” scrive l’autrice in una nota finale “ma, come dice un famoso proverbio, non tutti i mali vengono per nuocere: sono convinta che chi lo subisce sia destinato a diventare una persona forte e difficile da scalfire”.

Il finale, simbolico, come dichiara la stessa autrice “si presta a molteplici interpretazioni”.

Bello, pienamente promosso.

 

Federica Cabras

Ventiseienne, grande sognatrice. Legge per 12 ore al giorno e scrive per le restanti 12. Appassionata di cani, di crimine, di arte e di libri. Dipendente dalle paste alla crema. Professione, giornalista.