Un’Analisi di “Amo un Gigolò” di Chiara Minore

Un’Analisi di “Amo un Gigolò” di Chiara Minore

L’equazione sentimentale, in questo caso, è irrisolvibile. Ci si può gettare a capofitto in relazioni insoddisfacenti, illudendosi di un cambiamento. Ma è l’individuo a trasformarsi, ridefinendo priorità, legami e situazioni. Il percorso è lineare, dettato dall’obiettivo di perseverare nell’amore. Ma perché insistere se i conti non tornano? Diverse motivazioni concorrono: evitare la solitudine, colmare un vuoto esistenziale, nascondere un’assenza agli altri. Per chi non tollera l’isolamento, la mancanza di un rapporto stabile è destabilizzante, logorando spirito e quotidianità. La depressione si insinua, oscurando l’umore. Da qui a ricorrere alla compagnia a pagamento, il passo sembra lungo. Seppur attenuando ansie e paure, questa libertà conquistata è inversamente proporzionale all’ingenuità e all’autenticità del sentimento. Ogni parola, ogni gesto del gigolò è condizionato da un compenso, da un “amore” a prezzo fisso. Le frasi gentili, ricercate, profumano di denaro: più si paga, più sono lusinghiere. Da una parte la libertà, dall’altra un dovere, un servizio prestato. In definitiva, il bilancio è negativo, un investimento fallimentare. Resta la possibilità di non perdere la dignità, di evitare la solitudine, ma la vera libertà è inestimabile. Il racconto “Amo un Gigolò” di Chiara Minore è un’analisi introspettiva, seppur forse interpretata con eccessiva magnanimità. La storia di una medico che paga un gigolò per compagnia si riduce a una transazione semplice: domanda e risposta, pagamento e prestazione. Ricevere, sì, ma dare, ciò che desidererebbe l’altra parte, mai. Certo, emerge un disagio interiore, ma superficiale, come un breve temporale. Lo stile narrativo è sterile, impersonale, così come l’opera nel suo complesso. Definirlo romanzo è improprio ed azzardato. È più un collage di messaggi, privo di una scrittura fluida. Frammentato, acerbo, vuoto.