Un’analisi di “Il cuore non ha le rughe” di Ferri Spandri

L’amore, potente forza che soggioga, a volte cela insidie subdole. Abbagliati dalla passione, ignoriamo i segnali premonitori, anestetizzati da una beatitudine cieca. In un’estasi accecante, dimentichiamo la realtà, indossando paraocchi di gioia. Ma la verità, occultata e rimossa, genera risentimento, una rabbia silenziosa, dalle radici profonde e ancestrali. L’esplosione è inevitabile: ciò che era rimasto nascosto emerge nella sua brutale interezza. Il prezzo pagato è alto: sacrifici personali, sogni infranti, tempo perduto, l’illusione stessa dell’amore. La delusione è profonda, l’orrore vissuto, l’umiliazione, la violenza fisica. Il germoglio di sofferenza, trascurato per eccessiva felicità o mancanza di speranza, si trasforma in aggressione. La consapevolezza arriva troppo tardi: le mani che feriscono, il respiro velenoso della rabbia, la sottomissione, la paura paralizzante. Questa non è amore, ma dominazione, che priva entrambi della dignità umana, trasformandoli in mostri. In “Il cuore non ha le rughe”, la notte cela la violenza. Le lacrime, inevitabili, segnano la resa. La protagonista, Lotti, si abbandona a un amore perverso, che la cattura con maggior intensità. Scoprirà la vera natura del suo compagno, i segni fisici e le cicatrici interiori la ricorderanno costantemente delle sue dolorose scelte. La mappa della violenza sul suo corpo la guiderà verso la forza necessaria per ricostruire se stessa e una nuova vita. Lo stile è asciutto, la storia implacabile. L’assenza di dettagli ambientali accentua la crudezza del racconto, rispecchiando la sofferenza della protagonista.