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“Adele” di Giuseppina Torregrossa | RECENSIONE

Trovare le parole per le proprie colpe può essere un’impresa. Trovarne tante, poi, significa sgravarsi dai patimenti. Il passato c’è, per tutti. Può restare indietro scegliendo di andare avanti oppure puoi fare i conti con l’anima che chiede requiem. C’è chi ricorda e tace e chi, invece, ricorda e parla.
Sicilia, Corleone, anni ’60. Adele, minorenne, è incinta. È una bella ragazza che, per non far parlare tutto il paese e salvare anche le sorelle che vogliono meritarsi, decide di sposare “u manciatu”. Sua madre le aveva detto di non farlo, tanto delle malelingue non le importava niente. Adele si sente morire ogni volta che vede u manciatu. In paese tutti lo chiamano così per le croste scure che lo coprono dalla testa ai piedi, che neanche i peli neri e fitti riescono a nascondere. Adele nella sua cucina parla, parla, parla e parla. Da sola. È anziana, ormai. La sua bellezza, però, fine e spavaldia resta e resiste nel tempo. Ha due figli, Adele. Ciccio, che sembra più figlio del manciato di cui però non è il padre, e Gabriele, tanto tenero da bambino quanto rammollito da adulto. Adele ricorda il passato, le umiliazioni, gli abusi e la rabbia provata per il manciato e per quel figlio, Ciccio, che le ha portato dolore, ma che ama più di tutto e tutti. La donna cerca perdono parlando a se stessa per schiacciare il brutto dei pensieri e dei peccati. Tutto si mischia nelle parole. Forte, schietto, il monologo teatrale di Giuseppina Torregrossa. Bravissima, come sempre.

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