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La testimonianza silenziosa di Auschwitz: un’analisi de “La bestia di Auschwitz” di Reyes Monforte

Le parole, in quest’opera, vibrano tra realtà e finzione, una melodia struggente che lenisce la disperazione e allo stesso tempo si addentra nelle profondità della bellezza. Si tende ad apprezzare le parole rassicuranti, che offrono conforto. Ma quelle che trasudano sofferenza possiedono una potenza ancora maggiore; appaiono dissonanti, prive di ipocrisia, di finta consapevolezza, di lucida razionalità. Esprimono un dolore che non può più essere contenuto, che travalica le lacrime. Le parole, in questo contesto, sono strumenti essenziali: servono per lasciare un segno indelebile, per rivendicare la dignità di vite spezzate, per difendersi dal terrore e dalla crudeltà subita. Queste parole rimarranno per sempre, a testimonianza di atrocità, torture, omicidi e stragi che hanno contaminato i sogni e, soprattutto, la speranza di superare l’orrore. Nell’inferno, la morte diventa un’aspirazione, non un timore. Le bestie umane giungono inaspettate, ritornano per nutrirsi della paura delle vittime, infliggendo ogni sorta di indicibile barbarie. È ciò che accadeva ad Auschwitz, dove la disumanità rappresentava la fame insaziabile dei nazisti. “La bestia di Auschwitz” di Reyes Monforte ci conduce nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nella Polonia occupata. Maria Mandel, la crudele capocampo, è la figura dominante, la “bestia” del regime nazista. Al centro della narrazione, una giovane prigioniera la cui abilità nella scrittura, la bellezza della sua calligrafia, diventerà la sua salvezza. Come tutti i detenuti, la ragazza rischia la vita ogni giorno, ma trova nella scrittura clandestina, nel tentativo di far arrivare all’esterno le storie ritrovate nelle valigie dei deportati, una forma di resistenza, un modo per contrastare l’oblio e preservare la memoria del campo. Ispirato a una storia vera, questo romanzo crudo è una potente testimonianza di coraggio e speranza, nata nel luogo più terribile mai creato dall’uomo, per conservare il ricordo dei prigionieri.

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