“L’ultima strega” di Emanuela Bianchi | RECENSIONE
La furbizia rovina molte cose. Pensarsi astuti credendo di fare il bello e il cattivo tempo è più una presa in giro verso se stessi che un raggiro nei confronti degli altri. Gente del genere pensa che le persone deboli possano cadere facilmente nella loro trappola e fanno leva sulle fragilità temporanee che destabilizzano un po’ gli equilibri. I furbi sanno essere subdoli, ingannevoli e anche feroci nel perseguire i loro intenti. Nel peggiore dei casi assumono addirittura atteggiamenti persecutori. A volte riescono nella loro impresa, altre invece finiscono in gattabuia perché le vittime si mostrano audaci nel difendersi anche dinanzi alla Legge. Se all’astuzia si aggiunge l’essere avidi, allora le cose possono complicarsi. Soggetti del genere non si fermano dinanzi a nulla, tendono finanche ad accusare ingiustamente le vittime prescelte. E le accuse messe in campo saranno gravi perché non si fa rumore per niente. Più si cerca di affondare una persona e più quest’ultima prende forza per uscire indenne da una situazione scomoda. Chi ci riesce verrà ripagato della dignità macchiata dall’inganno di beceri miserabili.
In L’ultima strega Una storia vera della Calabria del XVIII secolo di Emanuela Bianchi finisci in un intreccio di pregiudizi, di superstizione, di inganni che vedono vittima, Cecilia Faragò, accusata di essere una strega. Questa è la storia vera dell’ultima donna processata per stregoneria nell’Italia del Sud. Cecilia è vessata da due avidi preti che vogliono impossessarsi dei suoi beni, allora l’accusano di aver provocato la morte del parroco. Lei, vedova ed analfabeta, non ci sta. Si ostina, ferma e decisa, a difendersi affidandosi ad un avvocato che porterà il suo caso fino alla corte di Napoli.
Il libro, nel suo racconto breve, è intenso. Il lettore entra in punta di piedi, con garbo, in una storia dimenticata a lungo. La scrittura è evocativa.