La distanza necessaria: un’analisi di “Il buon uso della distanza” di Vito Di Battista

Il controllo sugli altri si può ottenere con la coercizione, la minaccia, l’inganno o il denaro. La benevolenza, spesso, rivela la sua vera natura solo a posteriori, quando le conseguenze sono irreversibili. Nasconde un segreto inconfessabile, un impegno insidioso dal quale è impossibile tirarsi indietro. Compromessi apparentemente innocui si trasformano in un laccio che soffoca la libertà individuale, imponendo scelte altrui. Si anela al controllo della propria esistenza, persino al diritto di sbagliare. Le alternative si presentano come un’illusione, e chi non coglie l’attimo fuggente dell’opportunità è destinato alla sconfitta. La disperazione spinge ad accettare qualsiasi proposta, pur di ricominciare. Se la posta in gioco è alta, il peso dell’inganno diventa insopportabile. Inconsapevolmente, si può vendere l’anima al diavolo travestito da agnello. Il benefattore, a tempo debito, aumenterà le sue pretese, rendendo impossibile il distacco. La capacità di scrivere la propria storia, di affermare la propria identità, diventa allora fondamentale. “Il buon uso della distanza” di Vito Di Battista ci immerge nel dramma esistenziale, dove menzogne, inganni e disperazione conducono ad azioni inaspettate. Parigi, 1976. Pierre Renard, dopo il rifiuto del suo secondo romanzo, riceve una proposta enigmatica da una misteriosa “Madame”. Dovrà scrivere libri per lei, sotto diversi pseudonimi, senza mai incontrarla. In questo modo, conquisterà il successo nel mondo letterario parigino, ma a quale prezzo? Ricatti, intrighi e giochi di potere compromettono la sua vita privata, lasciandola vuota e priva di significato. Il romanzo è una rivelazione. La trama avvincente e la scrittura raffinata ci conducono in un viaggio introspettivo che svela la complessità della vita umana. La narrazione trasmette significati più profondi di quanto esplicitamente scritto.