Legge 104, attenzione: da domani ti mandano la SPIA a controllarti | Al primo passo falso, scatta il licenziamento

In alcuni casi i datori di lavoro possono far controllare i loro dipendenti - pexels - emmepress
La Cassazione ha messo un punto fermo su un tema che da anni divide: fino a che punto un’azienda può spingersi nel controllare i propri dipendenti?
La risposta, arrivata con una recente sentenza, è chiara: in alcuni casi il datore di lavoro può incaricare un investigatore privato per verificare se un lavoratore stia abusando dei permessi concessi dalla Legge 104. Ma non è un “via libera” totale: esistono regole precise e paletti rigidi da rispettare.
La Legge 104 del 1992 è nata per garantire sostegno alle persone con disabilità e ai loro familiari. Prevede permessi retribuiti che consentono ai lavoratori di assistere chi ne ha bisogno. Eppure, negli anni, non sono mancati casi di utilizzo improprio: giornate dedicate non all’assistenza ma a faccende personali, viaggi, attività che nulla hanno a che fare con lo spirito della norma. È in questo contesto che le aziende hanno cercato strumenti per difendersi da possibili abusi.
Secondo i giudici, il ricorso all’investigatore è lecito, ma solo se esiste un sospetto concreto, basato su indizi specifici. Non bastano voci di corridoio o impressioni: servono elementi che facciano pensare a un comportamento scorretto.
Inoltre, le indagini devono essere condotte nel rispetto della privacy e dello Statuto dei lavoratori. Niente pedinamenti ossessivi o raccolta di informazioni che riguardino la sfera strettamente personale: l’investigatore deve limitarsi a verificare se i permessi vengano effettivamente usati per l’assistenza dichiarata.
La scorrettezza può avere conseguenze serie con la Legge 104
In passato la giurisprudenza ha già affrontato casi simili. Ad esempio, dipendenti sorpresi a fare shopping durante le ore di permesso, oppure impegnati in attività sportive mentre risultavano in malattia. In situazioni del genere, le prove raccolte dall’investigatore sono state considerate valide e hanno portato anche a licenziamenti. La Cassazione conferma questa linea, ribadendo però che il controllo deve essere proporzionato e giustificato.
Per il lavoratore, questo significa che un comportamento scorretto può avere conseguenze serie. Una relazione investigativa, se ben documentata, può diventare prova in un procedimento disciplinare. Per l’azienda, invece, la sentenza rappresenta un’opportunità, ma anche un rischio: se il controllo non è motivato o rispetta in modo superficiale i diritti del dipendente, può trasformarsi in un boomerang, con ricorsi e sanzioni.
Si cerca un equilibrio
In sostanza, la Cassazione cerca un equilibrio: da un lato la necessità di proteggere i lavoratori e il valore sociale della Legge 104, dall’altro il diritto delle imprese a difendersi da chi ne approfitta. Non si tratta di criminalizzare i dipendenti, ma di tutelare chi utilizza questi permessi in buona fede, distinguendoli da chi li piega a interessi personali.
La linea guida è quindi semplice: controlli sì, ma non senza motivo, e sempre entro i confini della legalità. Una sentenza che ricorda a tutti — aziende e lavoratori — che i diritti esistono, ma non devono mai essere confusi con privilegi.