Licenziare una donna? Ora è ILLEGALE | Le aziende tremano e la Cassazione non ammette scuse, questa la nuova norma

Licenziamento - pexels - emmepress
Buone notizie per le lavoratrici italiane: una decisione della Corte di Cassazione ha sancito un principio che sarà un punto di svolta nel mondo del lavoro. Licenziare? Anche no.
Da oggi, infatti, non si possono licenziare le donne che manifestano la volontà di diventare madri, anche se non sono ancora incinte. È una sentenza che molti definiscono “epocale”, perché riconosce un diritto fondamentale: quello di poter scegliere la maternità, anche attraverso percorsi di procreazione assistita, senza timore di perdere il posto di lavoro.
Il caso nasce da una vicenda concreta. Una lavoratrice aveva comunicato al datore di lavoro l’intenzione di sottoporsi a un trattamento di fecondazione artificiale (la cosiddetta FIVET). Poco dopo, però, era stata licenziata. La donna ha deciso di rivolgersi ai giudici e, dopo un lungo iter, la Corte di Cassazione le ha dato ragione. Con l’ordinanza n. 24245 del 31 agosto 2025, i giudici hanno stabilito che quel licenziamento era discriminatorio e quindi nullo, imponendo all’azienda non solo di reintegrarla, ma anche di pagarle tutte le retribuzioni arretrate e i contributi non versati.
La motivazione è chiara: il desiderio di maternità, anche se espresso attraverso un percorso medico come la procreazione assistita, rientra tra i diritti fondamentali della persona e deve essere tutelato al pari della gravidanza stessa. In altre parole, una donna che comunica la volontà di accedere a un trattamento di fertilità non può essere licenziata per questo motivo.
Si tratta di un’evoluzione importante del diritto del lavoro italiano. Le norme già vietavano il licenziamento durante la gravidanza e fino al compimento di un anno del bambino, ma ora la tutela si estende anche alla fase “precedente”, quella del progetto di maternità. È un passo avanti culturale, oltre che giuridico, perché riconosce che la maternità non è solo una condizione fisica, ma una scelta consapevole e legittima che deve essere rispettata.
Una decisione impattante: licenziare non in questi casi
La decisione, naturalmente, ha un grande impatto anche per i datori di lavoro. Significa che non potranno più agire, nemmeno indirettamente, contro una lavoratrice che dichiari di voler intraprendere un percorso di fecondazione assistita. Qualsiasi provvedimento che possa sembrare collegato a quella decisione potrà essere considerato discriminatorio. Di conseguenza, le aziende dovranno prestare molta più attenzione alle motivazioni dei licenziamenti e ai comportamenti nei confronti delle dipendenti in simili situazioni.
Molti esperti del diritto del lavoro hanno accolto la sentenza come un segnale di civiltà. In un Paese in cui la maternità è ancora troppo spesso vista come un “problema” per la carriera, questa pronuncia restituisce dignità e libertà di scelta alle donne. Inoltre, si inserisce perfettamente nel solco delle direttive europee sulla parità di genere e sulla tutela della salute riproduttiva.
Restano aperte delle questioni pratiche
Certo, restano aperte alcune questioni pratiche: come si dimostrerà, per esempio, che un licenziamento è davvero legato alla decisione di intraprendere un percorso di procreazione assistita? E come si potrà bilanciare questo diritto con le esigenze organizzative delle imprese? Sono aspetti che solo il tempo e la giurisprudenza potranno chiarire.
Quello che è certo, però, è che la sentenza segna un cambiamento profondo. Riconosce alle donne il diritto di parlare liberamente del proprio desiderio di maternità, senza paura di conseguenze. Un segnale forte, che va oltre il diritto del lavoro: è un messaggio di rispetto, di parità e di progresso. In un’Italia che ancora fatica a sostenere la genitorialità, questa decisione rappresenta un passo concreto verso una società più equa e moderna.