Il respiro dell’inchiostro: un’immersione in “Hypsas” di Valerio Mello

La poesia di Valerio Mello in “Hypsas” inizia e finisce nello stesso istante, come la vita stessa. Nasce dal contatto fisico, dal volto, dagli sguardi che scrutano l’abisso della disperazione e del disincanto. I versi non sono un torpore verbale, un futuro informe e indefinito. La scelta della rima diventa un mezzo per comunicare, per rendere accessibile l’oscurità interiore, trasformandola in luce sulla pagina. L’autore sa cosa vuole esprimere e sceglie la poesia come veicolo. Non cerca risposte, ma cerca di condividere le frequenze di un linguaggio che desidera far risuonare negli altri, specialmente in coloro che sembrano indifferenti alla poesia. Questa stretta d’inchiostro non è un gesto insignificante nell’indifferenza di potenziali lettori, bensì una processione di riflessioni, di ansie, di sofferenze. È un’espressione vitale, un modo per liberarsi da un peso interiore, sperando nell’oblio che la sopravvivenza offre. La poesia può anche essere silenzio, un sussurro tra le ultime braci, una sofferenza densa e cupa che persiste nell’inconscio. È memoria senza nome. Le parole diventano ninne nanne di approvazione, preghiere di cenere per sconfiggere la fame di ciò che manca e che si desidera ardentemente. La poesia non ha fine, non offre certezze. Si soffre e si assomiglia al passato, ci si stratifia, ci si sfalda. In “Hypsas”, si finisce per rispecchiare i versi stessi, che Mello rende visibili attraverso l’inchiostro. La lettura è fluida, un abbandono in rime ora taglienti ora morbide, che adattano il respiro ai ritmi dolorosi, concreti e onirici. La poesia è un tessuto, un arazzo. Tutto riacquista un significato nel momento del riconoscimento. Non è semplice rimanere ancorati ai suoni della poesia autentica, ma quando lo è, il percorso è limpido e naturale.