“Sangue cattivo”: Un viaggio interiore di sofferenza e rinascita

“Sangue cattivo”: Un viaggio interiore di sofferenza e rinascita

L’incombere del dolore è inesorabile, indifferente all’età, colpendo senza preavviso. Superarlo è un percorso complesso, un binario doppio che può convergere in un unico destino. Il dolore è onnipresente, accompagnato dalla paura e da un senso di paralisi. Ci si sente inermi, impreparati, ma si reagisce. La sfida imposta dal dolore genera l’energia necessaria per affrontare le scelte cruciali, per trovare la forza di andare avanti. La paura dell’abbandono attanaglia, rendendo la convivenza con la sofferenza un peso insopportabile, una realtà intima e silenziosa, sebbene condivisa, in forme diverse, da tutti. Il dolore si insinua nel corpo, lo fiacca, lo marchia come difettoso. Ma la determinazione a superare la tempesta rimane, perché accettare un atteggiamento negativo significherebbe autoinfliggersi ulteriore danno. In questo delicato quadro emotivo, nulla va considerato come una punizione; l’idea stessa è una debolezza passeggera, dissipata dal respiro della speranza. In “Sangue cattivo”, Beatrice Galluzzi descrive con intensità la sofferenza e la lotta di una donna che scopre di avere una malattia autoimmune. Sul punto di sposarsi, la protagonista si ritrova priva di forze, con un malessere che inizia dalle caviglie. Il suo passato è difficile, il presente è una lotta estenuante. Si sente meritevole del dolore che le è imposto. Fortunatamente, Beatrice affronta la sua situazione con ironia. Nel profondo della sofferenza, capisce che deve continuare a vivere, a respirare. Il romanzo è un susseguirsi di risvegli, di albe che si aprono su un nuovo giorno. Il rumore del dolore emerge dalla narrazione, mitigato da un’ironia salvifica. Lo stile della Galluzzi è vibrante, come un’onda che si infrange sulla riva, per poi tornare al suo punto di origine.