Il senso del dovere, principio etico fondamentale, non sempre risiede nel cuore degli individui. Spesso ignorato, silenziato, il suo appello flebile viene soffocato. La responsabilità, però, si intreccia con la ragione, con il buon senso; non è un bene effimero, ma una forza vitale, alimentata dal rigore con cui affrontiamo le sfide esistenziali. Più gravoso il compito, maggiore la forza richiesta, una forza spesso insospettata. Molti, però, evitano le proprie responsabilità, perdendo così l’opportunità di crescere, di esplorare la complessità emotiva. Nel romanzo di Emma Donoghue, “Il prodigio”, assistiamo a questa irresponsabilità diffusa, contrapposta alla responsabilità delle due figure centrali: Anna, una bambina di undici anni considerata un prodigio, e Lib, la sua infermiera. Nell’Irlanda paludosa e gelida della seconda metà dell’Ottocento, Anna vive, a detta di molti, senza nutrimento da mesi, cibandosi solo d’aria. Santa, impostora, vittima? La sua condizione cela una frode, un inganno, o una segreta sofferenza? L’infermiera, Lib, si trova ad affrontare una responsabilità ben più ampia di quella assegnatale dal comitato del villaggio. La trama, avvincente e ricca di colpi di scena inaspettati, lascia il lettore sbalordito dalla maestria narrativa dell’autrice. La prosa, intima e provocatoria, rende “Il prodigio” un romanzo di grande impatto emotivo.
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