Sotto il velo persiano: un’analisi di “Spose persiane” di Dorit Rabinyan

La condizione femminile in alcune culture rimane una sfida ardua. Le donne sopportano ingiustizie e colpe che non sono loro, subendo le conseguenze più gravi. La dominazione maschile, esercitata da mariti, padri, fratelli, amanti, perfino da estranei, le costringe a un ruolo di sottomissione pur mantenendo una sorprendente forza d’animo. Spesso nascoste e velate, le donne rimangono in secondo piano rispetto ai propri desideri, rischiando la propria sicurezza anche per un semplice sguardo. In balia di un potere patriarcale, sono completamente dipendenti dagli uomini, consapevoli delle punizioni che potrebbero subire, ma i loro sogni di indipendenza e amore persistono. L’infelicità diventa una triste consuetudine, appresa fin dall’infanzia. Tuttavia, i loro desideri si trasformano in stelle luminose, una flebile speranza nel buio della notte. “Spose persiane” di Dorit Rabinyan ci introduce nel quartiere ebraico di un villaggio persiano, dove Flora, quindicenne figlia di un macellaio, è abbandonata dal marito con “un bambino nella pancia”. Il suo dolore è straziante, amplificato dalla credenza popolare che il suo destino infelice sia legato a una notte maledetta di eclissi lunare, in cui “anche le galline deponevano uova marce, rosse di sangue”. Il romanzo è straordinario, evocando intensamente i profumi di una terra profumata di miele e datteri. La narrazione è un delicato connubio di dolcezza e amarezza, intrecciando le vicende di diverse donne che condividono un sogno, una speranza per un futuro migliore.