Riflessioni sulla “Curva della Sopravvivenza” di Carlo Patriarca

La malattia: un’esperienza che sconvolge la mente, generando ansia e incertezza. Momenti di quiete, di fiducia nella speranza, si alternano a fasi di profonda preoccupazione, interrompendo il respiro solo per brevi intervalli. I sorrisi svaniscono, diventano estranei, relegati a un futuro migliore. La superficialità viene abbandonata, sostituita da una nuova consapevolezza. Ci si ritrova sospesi tra un passato sereno e un presente instabile. Le cure mediche, pur essenziali, rappresentano solo un aspetto del percorso. La vera sfida risiede nel modo in cui si affronta la malattia stessa. Si vive in uno stato di precarietà, riflettendo sulla vita, ma concentrandosi sulla pura sopravvivenza. Questo processo forgia una maggiore maturità, responsabilità ed empatia. I legami affettivi e la fede, se presente, diventano punti di riferimento fondamentali. Attraversare il dolore significa riconciliazione con la vita, con la sua intrinseca bellezza, fatta di contraddizioni e complessità. “La curva della sopravvivenza” di Carlo Patriarca ci immerge nell’intimità di un’anima ferita. Vittorio, un professore in quiescenza, scopre di avere un cancro. La diagnosi lo scuote, lo riporta a una realtà cruda, obbligandolo a ripercorrere la sua vita e quella di due giovani medici, il nipote Aldo e l’amico Bruno. Le loro esistenze, narrate lungo trent’anni, sono intrecciate da amori, rimpianti, aspirazioni, delusioni e invidie, fino a raggiungere una consapevolezza: la forza del loro legame amicale. Per Vittorio, la malattia diventa anche il mezzo per riconciliarsi con un fratello perduto. In definitiva, il romanzo è un’intensa esplorazione interiore, un’opera che abbraccia una gamma di emozioni che cercano conforto e redenzione, scritta con uno stile intriso di sensibilità e sentimento.