La battaglia per la redenzione: recensione di “Una vita in battaglia” di David Savarese

Alcuni uomini esprimono se stessi attraverso la violenza, un linguaggio appreso, ereditato o autoimposto. La paura, istintiva, li porta a proteggersi, a ritirarsi dall’orlo del baratro, seppur temporaneamente. Rabbia e terrore si fondono, spesso alimentate da esperienze domestiche traumatiche. La violenza vissuta e osservata, come un’ombra cupa che incombe, lascia un segno indelebile. Se si è fortunati, si reagisce con la fuga, altrimenti si affonda nel silenzio, negli eccessi, nell’isolamento. Le regole diventano irrilevanti, l’ansia accende la rabbia, una forza potenzialmente distruttiva, capace di piegarsi al bene o al male, a seconda delle scelte individuali. La mente, se integra, distingue il giusto dallo sbagliato, il bene dal male. In “Una vita in battaglia” di David Savarese, si percepisce l’odore acre della lotta per una vita normale, fatta di affetto, serenità e riscatto. Questo riscatto, ricercato dopo una vita segnata da sofferenza e degrado, è un processo faticoso, ma di inestimabile valore. Richiede fede in se stessi. La vita stessa diventa un ring, dove la vittoria si conquista colpo dopo colpo. Emanuele, il protagonista, prima subisce i colpi del padre, poi, come pugile pluripremiato, li restituisce ai suoi avversari, sancendo il suo riscatto dalla delinquenza. Un giovane che avrebbe potuto soccombere alla criminalità, se non avesse saputo incanalare la sua forza, la sua rabbia, trasformando la sua disperazione nella determinazione di costruirsi un futuro migliore. Lo stile narrativo è essenziale, privo di fronzoli letterari. È un resoconto asciutto dei combattimenti di un campione del mondo, ma il valore del libro risiede nella storia vera che racconta. Il messaggio è forte, diretto. La narrazione, seppur priva di eccessi stilistici, è rapida, a tratti semplicistica.