Un’analisi di “Divo.C19” di Chiara Pagani

Le restrizioni imposte dalla pandemia di COVID-19, seppur difficili da accettare, si sono rivelate necessarie. Il rispetto per se stessi e per gli altri ha reso accettabile tale limitazione della libertà individuale. Tuttavia, proprio nelle situazioni critiche e avverse si cela la nostra forza interiore, un propellente che ci spinge al miglioramento e all’innovazione. Non c’è nulla di regalato, ogni successo si conquista con impegno. E quando ci si sente alle strette, accerchiati da difficoltà apparentemente insormontabili, è allora che la mente si affina. Si sperimentano nuove strade, si coltivano idee audaci e progetti ambiziosi. La perseveranza è la chiave del successo, a condizione che le idee siano solide, brillanti e sostanziali. E’ fondamentale trasformare le intuizioni in azioni concrete. Gli insuccessi non devono scoraggiare; bisogna rialzarsi con rinnovata energia, riconoscendo i propri progressi. Nulla ci è dovuto, ma molto possiamo ottenere anche in situazioni sfavorevoli. Reagire con tenacia e ambizione ci permette di affrontare anche le domande più scomode. La pandemia ha messo a dura prova tutti noi, obbligandoci a un’introspezione per individuare le nostre debolezze e valorizzare i nostri punti di forza, illuminando il cammino verso nuove possibilità creative. “Divo.C19”, di Chiara Pagani, è un racconto frammentario, quasi un’istantanea, simile a un gioco di specchi. La vicenda di Carlo, un giovane introverso e appassionato di tecnologia, riflette le esperienze di molti coetanei. Privato degli incontri diretti con gli amici, si è rifugiato nel mondo dei social media, condividendo i suoi pensieri con i suoi follower. La sua insicurezza si trasforma in una spinta a diventare protagonista della propria vita. Lo stile narrativo è essenziale, privo di capitoli, come un flusso continuo di coscienza. L’autrice sembra improvvisare, senza approfondire personaggi, ambientazioni o dettagli, lasciando la storia incompiuta, senza colpi di scena o sviluppi significativi. L’opera soffre di una mancanza di profondità; la scrittura è superficiale, anche nei momenti più interessanti. L’impressione è che l’autrice abbia dato priorità all’idea di scrivere un libro piuttosto che alla sua elaborazione e realizzazione. L’idea è rimasta tale, un abbozzo privo di sostanza.