L’intervista di Maurizio Costanzo a Pietro Maso ha registrato un picco di ascolti in seconda serata, sollevando interrogativi sul ruolo dei media e la loro capacità di attrarre il pubblico, a prescindere dal contenuto. In un panorama mediatico dove il dato di ascolto prevale su ogni altra considerazione, l’intervista a Maso, colpevole di un orrendo parricidio, si inserisce in un contesto più ampio. L’omicidio dei propri genitori è un atto che, indipendentemente dal tempo o dal luogo, scuote profondamente la società. Le motivazioni dietro simili gesti, pur numerose e complesse, non giustificano mai l’efferatezza dell’atto. Ma perché, allora, dedicare spazio mediatico a un’intervista con un individuo colpevole di un crimine così efferato?
La risposta risiede nella natura stessa della mente umana, attratta da ciò che, pur essendo nocivo, suscita una morbosa curiosità. La fascinazione per il male, per gli abissi più oscuri della psiche, può trasformarsi in un piacere perverso. Questa propensione viene sfruttata dai media, che, gradualmente, abituano il pubblico a confrontarsi con contenuti estremi, desensitizzando la popolazione e creando una sorta di accettazione passiva di comportamenti aberranti come se fossero parte della normalità. Questo approccio, pur garantendo ottimi ascolti, corrode la psiche, intrappolando lo spettatore in una spirale di negatività da cui è sempre più difficile liberarsi. È possibile, tuttavia, vivere serenamente senza esporsi a tali contenuti, ma questo richiede consapevolezza dei meccanismi psicologici in gioco e un’analisi critica dei messaggi mediatici, competenze non accessibili a tutti. La realtà odierna, infatti, si configura come un vasto mercato dove non si vendono beni materiali, ma individui, esposti come merce sugli scaffali virtuali.
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