L’esistenza è un respiro, ma la sensazione è quella di essere pietra, inerte. I colori svaniscono, i sorrisi sono un ricordo lontano, la spensieratezza, un’eco del passato. Quando la quotidianità si fa buia, è perché qualcosa nell’anima si è spezzato. Un profondo malessere si insinua in ogni fibra del tuo essere, paralizzando la volontà. Ogni passo è una fatica, respirare sembra un’ingiustizia, un privilegio non meritato. Il giorno è indifferente, la sua luce insignificante. Si brama il silenzio, la solitudine. Si vive, ma senza vivere veramente. Ci si scontra ripetutamente con gli stessi ostacoli, indipendentemente dalle circostanze, una caduta costante. A volte, ci si auto-flagella per questa incapacità, ma la radice del problema è nota, ben radicata. Allora, si respira, consapevoli di essere diventati freddi, distaccati. L’insensibilità è totale, un’indifferenza che copre tutto, persino il suono del proprio nome. Ogni appellativo è vuoto. Non si è vivi per sé stessi, né si sa più chi si è diventati. Ferro, oscurità, silenzio, ombra. Polvere, terra arida, questa è l’anima. La ragione di questo torpore resta un mistero, celata gelosamente, una ferita nel sangue, una corruzione intrinseca. Si respira, e si è pietra. In “Io non sono vivo” di Sarah Grisiglione si esplorano molteplici esistenze, o forse nessuna. Le ferite, con i loro nomi, le cicatrici che segnano il tempo, l’oscurità che avvolge le ore, sono ombre persistenti. Ciò che resta, poco o tanto che sia, non è mai sufficiente per un’anima fragile. Le risposte alle domande cruciali sono note, ma rimangono taciute. Il libro è un’antologia di racconti brevissimi, dove la sintesi maschera un’intensità di pensiero notevole. La prosa è intima, essenziale.
Un’esistenza di ferro: riflessioni su “Io non sono vivo” di Sarah Grisiglione

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