La vita di una donna nata e cresciuta nell’ombra della criminalità organizzata può essere un calvario incessante. In un ambiente mafioso, l’individuo non si appartiene, ma è proprietà del potere delle cosche, un’eredità impossibile da cancellare, anche con la scelta di una vita onesta e la collaborazione con la giustizia. La malavita non concede seconde possibilità; le sue regole implacabili si scontrano con le scelte personali, un peso enorme, amplificato per una donna e madre. Il rifiuto della cultura mafiosa, la decisione di denunciare, rappresentano un affronto intollerabile, che porta a una sentenza di morte, soprattutto agli occhi del boss tradito. Il coraggio di ribellarsi, di aspirare a una vita normale, si contrappone alla supremazia delle famiglie mafiose, che mirano a controllare ogni aspetto dell’esistenza, anche quella dei propri familiari. La violenza del ricatto e della vendetta non spaventano una donna che lotta per la dignità: la sua memoria, perfino per gli assassini, diventa un grido di dolore per le innumerevoli vittime della mafia. In “Una fimmina calabrese”, Paolo De Chiara racconta la storia di Lea Garofalo, un esempio di straordinario coraggio contro la ‘ndrangheta. Lea, cresciuta nel cuore della criminalità, ha assistito alla morte di familiari e amici, vittime di un sistema basato su potere, rispetto deformato e guadagni illeciti. Come molte altre donne, ha subito violenza; ma, a differenza di altre, ha denunciato la ‘ndrangheta, rivelando i suoi affari criminali, che si estendevano anche al Nord Italia. La sua scelta le è costata la vita: a trentasei anni è stata rapita e uccisa a Milano, su ordine del suo ex compagno. Il libro è una testimonianza straziante, un documento prezioso che svela l’abbandono da parte delle istituzioni, un’ingiustizia inaccettabile. Una storia vera, che evidenzia la mancanza di memoria di un paese che dovrebbe vergognarsi per il modo in cui tratta chi, con coraggio e onestà, ha semplicemente adempiuto al proprio dovere.
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