Il silenzio e la visita di Anastasia | Riflessioni su “La visitatrice” di Maeve Brennan

A volte, le parole mancano. Non sempre è facile trovare le espressioni giuste, quelle che riescono a esprimere ciò che si prova nel profondo, senza cadere nella superficialità delle frasi fatte. Spesso, il silenzio si rivela la scelta più efficace, una forma di difesa contro l’imbarazzo e la banalità. È una strategia che può funzionare nel breve termine, ma se la situazione persiste, le parole troveranno comunque la loro strada, autentiche e spontanee. In “La visitatrice” di Maeve Brennan, i silenzi sono più eloquenti dei dialoghi. Anastasia, orfana e segnata dalla perdita di entrambi i genitori, torna a Dublino nell’appartamento della nonna paterna, un luogo che le appare come unico ponte tra il suo presente e il suo passato. L’accoglienza è gelida, un’atmosfera di distacco in cui l’anziana donna, imprigionata nel proprio dolore, non riesce ancora a perdonare la nipote per aver preferito la madre, abbandonando il padre alla solitudine. Nonna e nipote si confrontano in un silenzioso duello emotivo, dove la compostezza e l’eleganza esteriori celano un’intensità di sentimenti. Il romanzo si concentra sui caratteri delle due protagoniste, delineati con tratti così vividi e sfuggenti da apparire più come ritratti che come semplici descrizioni. Il lettore le osserva da una certa distanza, quasi intimidito dall’intimità dei loro silenzi, consapevole che qualsiasi tentativo di intrusione con frasi vuote sarebbe inappropriato. Lo stile di Brennan è intenso, suggestivo, lasciando spazio all’immaginazione del lettore, che arricchisce la storia con le proprie interpretazioni.

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