Sanremo 2024, “La noia” della normalità musicale e dei pretesti territoriali
Rendere eccezionale l’ordinario: si è chiusa ieri sera la 74a edizione del Festival di Sanremo, nel segno inequivocabile della polemica del televoto e della noia. Infatti, se per un anno, le critiche avevano lasciato il posto all’unanimità del talento – Marco Mengoni – ora si ritorna alla divisione che contraddistingue il nostro Paese. Unito sotto il cielo dell’Auditel, ma distante geograficamente e generazionalmente: il suo cuore temporaneo, l’Ariston, raccoglie il plauso di ascolti record che forse forse si faranno nostalgici senza Amadeus(?) il prossimo anno, ma restituisce un’immagine retrograda e schizofrenica del suo elemento, l’italiano medio. Che si emozione sul tema dei migranti e poi annega un ‘fratello’ perché non ‘mameliggia’ il testo. Immagini contradddittorie e disorientanti, come d’altronde quelle offerte dal duro John Travolta che fa la papera, capaci di rimanere impresse più della gara stessa. Per dominanza del trash o demeriti della stessa? Qui si scatena il vero dibattito di questa edizione.
Per carità, siamo di fronte a una rivoluzione digitale irreversibile, mossa da materiali online sempre più immediati e impattanti, ma i testi, forse unico parametro contestuale che lega la kermesse nel corso di questi decenni, sono stati tutt’altro che indimenticabili. Figli forse di un ascoltatore ormai saturo di suoni e sempre più superficiale di fronte al vero concetto di musica, i brani di questo Sanremo 2024 restituiscono un vero assoggettamento alle vendite digitali, dove la melodia – quasi a mo’ di jingle pubblicitario – distoglie completamente dal motivo della presenza su quel palco. E la dimostrazione l’abbiamo in primis con le collaborazioni in quantità industriale di pochi autori con più artisti in gara. Featuring frettolosi in rapporto al tempo a disposizione (o vogliamo reputarle epifanie artistiche?) che si adagiano notevolmente su uno stile già avviato dell’artista senza donargli il giusto abito sanremese (a misura di tutti). Ecco quindi l’eco di molti brani sulla falsariga di quelli sentiti fino a una settimana prima in radio o addirittura all’edizione precedente (Mr Rain), senza quel pizzico di originalità in più per il rito collettivo.
Chi ha provato, invece, a impegnarsi un po’ di più, si è visto scaraventare in fondo alla classifica finale di Sanremo, come gli stessi La Sad, avvolti dall’aura dei villain dell’edizione e catapultati ai bordi nonostante il tema molto importante sul suicidio, Dargen D’Amico coi suoi concetti umanitari forse troppo stropicciati da una base uptempo troppo rapida o la stessa Fiorella Mannoia con la sua tarantella femminista nemmeno in top 10. Nel mezzo i compitini di molti artisti, salvo eccezioni (siano benedetti la “pazza” Loredana Bertè e il lirismo struggente di Irama!), che hanno provato a innovarsi col freno a mano (Rose Villain e il suo banale e kamikaze refrain) oppure hanno fatto rifornimento di streams per utenti medi o fanbase, fino al fatidico podio. Lì si è annidato il completo asservimento alle logiche commerciali, con pezzi senza una grossa anima che sicuramente prendono un netto distacco dallo scorso anno. Tra chi ha lasciato accesa la radio, concedendosi soltanto qualche virtuosismo in più, chi avrebbe potuto portare anche una lista della spesa per avere il gradimento (e qui attenzione, parliamo del pericolosissimo mondo di Tik Tok col suo esercito di automi digitali anziché di una questione territoriale) e chi ha riportato, vuoi o non vuoi, Maria al centro del villaggio.
E per chi si intende di musica tutto ciò è stata una vera “noia”!